Appunti di Guglielmo Bellelli
“Wine Revolution” è il titolo di un libro recente di Jane Anson (2017) dedicato alla cosiddetta svolta naturale nel mondo del vino. Quelle che all'inizio erano soltanto piccole voci di resistenza di qualche vigneron alla massiccia meccanizzazione e all'ingresso della chimica nelle vigne degli anni ’50 sono diventate progressivamente più numerose nei tre decenni successivi , avviando una accelerazione diventata sempre più evidente, dalla quale emerge una richiesta sempre più avvertita e condivisa da ampi strati della popolazione.
Pur essendo indubbio che oggi i consumatori sono tutelati in misura molto maggiore di quanto non lo siano stati mai prima, il senso di minaccia percepito dalla popolazione nei confronti della dispersione di sostanze nocive nell'ambiente é notevolmente cresciuto. Lo sanno bene quei viticoltori che hanno vigne in prossimità dei centri abitati o di una scuola, che oggi incontrano un’opposizione crescente all’impiego di agenti chimici nei loro campi.
Corrispondentemente sta notevolmente crescendo in tutto il mondo la domanda di vini cosiddetti naturali, come mostra anche l’aumentato interesse anche della grande distribuzione, che ormai si avvale sempre più di esperti in grado di consigliarli negli acquisti in questo settore. E, finalmente, dopo un avvio più timido e a macchia di leopardo, un numero crescente di viticoltori ha adottato modi di coltivazione orientati alla sostenibilità: eliminazione dei pesticidi, ricerca della biodiversità, autonomia energetica, zero carbone, la coltivazione di varietà indigene già ambientate e meno bisognose di protezioni chimiche.
Si tratta di un fenomeno importante e ormai irreversibile, che segnala una preoccupazione più generale per un’agricoltura più sana e sostenibile e per l’ambiente, anche se naturalmente la resistenza da parte dei coltivatori convenzionali e soprattutto da parte dell’industria chimica è ancora molto forte. La vicenda del glifosato insegni.
Non vanno però neppure taciute talune contraddizioni, interne alla filiera vitivinicola, e la grande confusione che ancora disorienta i consumatori meno avvertiti creata dalla molteplicità di marchi e di associazioni che dovrebbero garantire la genuinità dei prodotti vinicoli. Anche una certa tendenza al settarismo tra le varie associazioni non aiuta sempre, creando divisioni e frastornando il consumatore, che non sa orientarsi tra la molteplicità di orientamenti ed etichette adottate.
Andrebbe innanzitutto chiarito che termini come vini biologici, biodinamici e naturali, che vengono spesso utilizzati indistintamente, non indicano esattamente la stessa cosa. Ovvero solo in parte, perché sia i vini biodinamici che quelli cosiddetti naturali sono anche biologici, ossia sono accomunati dal rifiuto categorico dell’impiego di pesticidi, ma differiscono notevolmente per ogni altra cosa.
In Europa i vini biologici sono indicati da un’apposita certificazione pubblica, AB Eurofeuille, a parte altre certificazioni nazionali aggiuntive, mentre i vini biodinamici fanno riferimento a due grandi organismi internazionali, Demeter (1927), che è il più grande e col maggior numero di aderenti, e Biodyvin (1995), che, oltre a fare assoluto divieto di impiego di pesticidi, aggiungono limiti assai più severi nell’impiego di sostanze aggiunte nella vinificazione, come i solfiti aggiunti (i valori massimi ammessi sono poco più della metà di quelli consentiti ai vini biologici in tutte le categorie), e vietano l’impiego di alcuni prodotti di origine animale come la colla di pesce o la gelatina di maiale , mentre sono ammesse l’uovo e la caseina.
Diversamente, per i vini cosiddetti naturali non esiste al momento invece nessuna definizione precisa e nessuna vera certificazione pubblica se non l’autodichiarazione del singolo produttore o la sua adesione a una delle diverse associazioni di viticoltori che propugnano la vinificazione naturale. In definitiva quello dei vini naturali é un grande ombrello, sotto il quale sono compresi approcci assai diversi e spesso poco coerenti tra loro, e anche i risultati sul piano della qualità sono enormemente variabili.
La biodinamica, invece, rappresenta in questo campo una specie di unicum, perché fa riferimento ad una filosofia ben precisa e a un insieme di pratiche, soprattutto agronomiche, ben identificate. Com'è noto, essa deriva dall'insegnamento del filosofo naturale, Rudolf Steiner, che fissò i principi dell’agricoltura biodinamica nel suo celebre Cours del 1924, venendo poi integrata alla fine degli anni ’70 dal calendario lunare di Maria Thun.
Aldilà della rigida applicazione di regole e precetti, ovviamente anche in parte superati o troppo generici (non dimentichiamo che Steiner si rivolgeva ad agricoltori che praticavano la policoltura, nella quale il principio della crescita armonica dei vari componenti il sistema, come alimentare gli animali con i cereali della fattoria e utilizzare le loro feci per fertilizzare la terra, è assai meno immediatamente applicabile alla monocultura), è importante l’ispirazione di fondo che si traduce in un rapporto diverso e molto flessibile tra il viticolture e la sua vigna, caratterizzato da una presenza continua nella vigna e dalla cura minuziosa delle piante. Anche se alcuni aspetti come il ritorno ai cavalli nelle vigne possono apparire un po’ folcloristici è indubbio che il loro impiego consenta una lavorazione più dolce e meno traumatica di quella meccanica e le differenze , nei migliori produttori, si vedono tutte.
Si tratta però di un atteggiamento diverso e per certi versi esattamente opposto a quello del cosiddetto non interventismo affermato da alcuni vignaioli cosiddetti naturali. Il vino non si si fa da solo, ma richiede di essere seguito e diretto dall'uomo in ogni fase della sua produzione: nella vigna innanzitutto e poi in cantina.
Secondo i coniugi Bourguignon, importante punto di riferimento della vitivinicoltura biologica, un vino naturale dovrebbe innanzitutto adottare un approccio biologico e biodinamico in vigna, e, durante il processo di vinificazione, non usare additivi per correggere l’acidità troppo alta o troppo bassa, non aggiungere zucchero per aumentare l’alcolicità, non impiegare lieviti per controllare le fermentazioni, né enzimi per aiutare la fermentazione malolattica, mentre sono ammessi livelli minimi di zolfo per ottenere dei vini stabili.
I vini naturali sono davvero diversi da quelli convenzionali? In Borgogna tutti i grandi vigneron , da M. me Leroy a Mr. Aubert de Villaine, da Jean-Louis Trapet a Thibault Liger - Belair sono biodinamici. E Perfino a Bordeaux, certo tra le regioni vinicole fino a pochi anni fa meno green tra le grandi regioni vitivinicole della Francia, non potrà non accorgersi dei risultati ottenuti dai vini di vino di Pontet-Canet e Palmer di questi ultimi anni, i più grandi châteaux convertiti alla biodinamica. Hanno una purezza, una persistenza, una lunghezza difficili da ritrovare in qualsiasi altro grand cru in regime convenzionale. Detto questo, bisogna dire che gli obiettivi da raggiungere sono complessi e la strada è ancora lunga, come ammonisce anche Miguel Torres, tra coloro che maggiormente hanno contribuito alla diffusione della viticultura sostenibile nel mondo.
Voglio soltanto accennare velocemente a due temi molto dibattuti nel mondo della vitivinicoltura bio: l’utilizzazione o l’eliminazione dello zolfo e del rame, finora ammessi anche dalla vitivinicoltura biodinamica. Lo zolfo è il grande imputato dei sostenitori dei vini naturali. Questa posizione è così precisa che per il grande pubblico, i vini naturali sono fondamentalmente quelli senza solfiti. E’ un punto di vista molto riduttivo e alla fine non è davvero distintivo di nulla, visto che ormai anche la grande industria del vino ha introdotto nella propria gamma delle cuvées senza solfiti aggiunti. Va chiarito che il problema dei solfiti non riguarda soltanto il vino, perché essi si trovano un po’ dappertutto : nei legumi secchi, nei crostacei, nei pesci seccati, e-l’avreste detto?-in quantità record nelle albicocche secche.
Nel vino, lo zolfo lo si incrocia durante l’intero processo di vinificazione: alla vendemmia, durante la fermentazione, nell’imbottigliamento. In parte è anche prodotto naturalmente nel corso della vinificazione, poi ci sono naturalmente i solfiti aggiunti. Fanno male? Uno studio dell’INSERM ha indicato nello 0,26% la percentuale di francesi intolleranti ai solfiti. Chi lo è non prova il classico mal di testa citato da chi pensa di essere intollerante (quello è causato dall'alcol) ma eruzioni cutanee e disturbi intestinali. A partire da 11 mg. per litro chiunque è in grado di rilevarli all’assaggio, anche se l’acidità e il maggior grado alcolico tende a renderli meno riconoscibili. Gli effetti negativi possono manifestarsi oltre 0,7 mg. per chilo di peso corporeo, ovvero un terzo di bottiglia di vino bianco convenzionale che ne contenga 200 mg./litro.
Se ne può fare a meno? Lo si può certamente limitare, e alcuni produttori hanno elaborato cuvées senza solfiti aggiunti. Tra i produttori di Champagne sono ad es. Drappier (Brut Nature) e Fleury (cuvée Sonate), ma gli esempi sono numerosi sia in Italia che in tutta la Francia (Loira, Borgogna, Alsazia), e persino a Bordeaux (Château Le Puy). Il cosiddetto metodo borgognone prevede un impiego minimale di solfiti. Se le uve sono perfettamente sane e i vini correttamente vinificati in ambienti perfettamente puliti, i risultati sono eccellenti. I vini ne guadagnano in purezza e digeribilità.
La loro eliminazione ha però dei costi, come una minore stabilità e conservabilità dei vini non trattati. La loro eliminazione completa rende i vini maggiormente vulnerabili ad altre conseguenze più gravi. Uno di essi è l’ossidazione. Ma come già la premox (l’ossidazione precoce) che affligge i vini bianchi, un altro problema può venire, specie per i vini rossi, dall'aumento della diffusione del cosiddetto brett, cioè gli odori sgradevoli indotti dal brettanomyces bruxellensis, un lievito “cattivo” che i sommelier conoscono bene.
A parte cause più “locali”, come l’impiego di recipienti contaminati, ecc. il problema ha molte altre origini in parte sconosciute o non facilmente riconoscibili. Un rischio importante viene però oggi dai cambiamenti climatici. .L’innalzamento delle temperature, infatti, tende ad abbassare l’acidità dei vini e a far salire il pH, a determinare valori più alti di polifenoli, ambiente ideale per il brett (vedi vini del Rodano degli ultimi 30 anni). Anche l’aumento dello zucchero in fermentazione che rende più difficile ai lieviti buoni, come il Brettanmyces cerevisiae, di consumare tutto, e la maggior quantità di zucchero residuo fa sviluppare il brett. Vi sono poi forse anche differenze tra le diverse varietà di uva: secondo Van de Water i vini borgognoni sarebbero più a rischio perché il pinot nero è meno tannico e con una più alta quantità di nutrienti di altre varietà a bacca rossa. L’assenza o bassi livelli di solfiti non riescono a contrastare la formazione del brett, così come sono inefficaci a prevenire la formazione dell’acidità volatile. Il problema è tanto più grave in quanto è molto difficile scoprire il brett in anticipo e prevenirne gli effetti, oltre alle difficoltà di sradicarlo.
Veniamo al rame, impiegato da tutti i viticultori biologici. La domanda in primo piano oggi è : bisogna abolire l’impiego del rame, potente battericida e fungicida naturale, ingrediente principale della bouillie bordolese , finora ritenuto indispensabile per combattere la minaccia della peronospora? Considerato come cruciale e “naturale” dalla viticultura bio, è oggi sotto accusa delle autorità europee, le quali hanno disposto la sua riduzione da 6 Kg. l’anno (sino ad un massimo di 30 in cinque anni) a 4 l’anno (sino ad un massimo di 28 in sette anni). Nello stesso tempo, però, l’EFSA ha “salvato” il glifosato, poggiandosi sulle expertises di Monsanto (ahi, ahi, ahi).
Il fronte dei vigneron non è uniformemente schierato al riguardo: Jean-Marie Guffens, vignaiolo “di culto” del Mâconnais, accusa esplicitamente coloro che adottano metodi di conduzione biologici, di aver inquinato i suoli con una eccessiva utilizzazione di rame, non senza conseguenze, prima tra le quali, un aumento dell’ossidazione dei vini. I vigneron bio si difendono affermando di non essere affatto dei militanti del rame, che anzi cercano di limitare sempre di più, ricorrendo, nei periodi in cui la pressione del mildiou è meno intensa, a semplici decotti di erbe (prêle, consoude e ortica).
Ma è davvero possibile ridurre o addirittura eliminare il rame? L’impiego del rame nella viticultura risale al XIX secolo, quando l’ampelografo Alexis Millardet scoprì, quasi casualmente, il rimedio contro la peronospora: visitando lo Château Ducru-Beaucaillou, che sembrava immune al flagello, venne a sapere dal suo régisseur che essi impiegavano una miscela di solfato di rame e calce polverizzata per tenere lontani i ladri d’uva. Millardet mise così a punto con il chimico Gayon la famosa bouillie bordelaise. Il sistema si rivelò molto efficace, ma, come sempre, i vigneron cominciarono a farne un uso eccessivo: nel XX secolo si giunse fino a 50 kg. per ettaro l’anno!
Quello del rame è dunque un inquinamento consolidatosi nel suolo nel corso di decenni. Oggi le dosi sono molto più basse (da un’inchiesta effettuata presso 1.900 vigneron bio di tutta la Francia ha evidenziato al momento un consumo medio di 2.98 Kg/anno, con una punta di 4.14 nel 2018, anno di forte pressione del mildiou), ma non basta : i vignaioli devono infatti affrontare un’eredità storica di eccessi dell’impiego di rame.
Quando il rame penetra nella terra, il 90-95% del metallo viene assorbita dal suolo e il resto viene assimilato da batteri, funghi, animali, piante come oligo-elementi, ossia costituisce il rame biodisponibile. Il rame diventa tossico se questa proporzione diventa troppo alta. I suoli non rispondono però tutti nello stesso modo. Sui suoli argillosi o molto calcarei il rame è poco biodisponibile, ma in un suolo acido , come di graniti o sabbia, il rame si solubilizza e viene assorbito dagli organismi viventi e l’effetto tossico diventa maggiore. Secondo uno studio recente a partire da 30 a 50 mg/chilo di rame biodisponibile si manifesta una riduzione della vita microbiologica dei suoli, in caso di suoli acidi. Ne occorre il doppio (da 50 a 100 mg.) nei suoli argillosi o calcarei.
La tossicità del rame non è visibile all'esterno, ma gli effetti prodotti dal rame sono di una forte riduzione dell’attività biologica del suolo. In sintesi, la terra si impoverisce progressivamente.Insomma, nel tempo bisognerà fare nella misura maggiore possibile a meno del rame.
La scienza non ha però ancora trovato le misure adatte a combattere più efficacemente il mildiou e a eliminare gli eccessi di rame accumulatisi nel suolo. Espedienti come il seppellimento delle foglie morte e dei legni della taille invernale, l’impiego di sostanze stimolanti delle difese naturali delle piante, l’utilizzazione di ceppi geneticamente modificati più resistenti non sono al momento conclusivi, anche associandoli al lavoro della vigna e all’inerbamento. La questione è tuttora aperta.La strada da percorrere è ancora lunga, ma la direzione è quella giusta.